AGP&S STUDIO GRAFICO

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La grafica è un sistema di comunicazione tramite immagini e segni. Nel disegno industriale è la "grafica del prodotto".
La grafica è una presenza trasversale. Dove c’è comunicazione c’è grafica e al pari della comunicazione essa è dappertutto.
La grafica è nelle pubblicazioni, nelle grandi opere divulgative, nella diffusione massmediale delle idee.
La grafica è là dove la cultura si fa editoria: uno strumento iconografico che genera sistemi di significazione.
La grafica è presente non solo nella divulgazione ma anche nella modellizzazione del territorio, dell'ambiente e dei contesti socio-culturali.
La grafica mitiga l'inquinamento visivo e la saturazione comunicativa. Un buon progetto grafico è come un'opera d'arte.

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In un'epoca di crisi globale, di conflitti e distruzione, la cultura può ancora svolgere un ruolo di aggregazione e confronto. La cultura è uno strumento di progettazione concettuale e i progetti, qualunque sia la loro natura, politica o sociale, tecnologica o culturale, devono prima di tutto essere "comunicati".


Continua dalla home page: perchè la sigla AGP&S?

Spiegare cosa sia il Design in tutte le sue declinazioni è un compito davvero difficile, poiché esso abbraccia una pluralità di discipline e settori. Possiamo isolarne alcuni aspetti, intorno ai quali concentrare studi e interessi: arte, grafica, pubblicità e, sempre più spesso, software come raccordo fra immagine e informazione, "modalità" e "contenuto". Così è nata la sigla AGP&S, una semplificazione tutto sommato efficace per un attività in realtà molto complessa e articolata.

  • Arte
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  • Il grafico statunitense Paul Rand sosteneva di avere due obiettivi. Il primo che tutto ciò che faceva come designer doveva basarsi su di una idea, non poteva soltanto "apparire bello". Il secondo che “doveva apparire bello”.

    I have two goals. The first is that everything I do as a designer must have an idea, it cannot just look nice. The second is, it has to look nice — Paul Rand

    Se ci chiediamo infatti quale sia la differenza fra arte e design, o più specificatamente fra “arti visive” e “design grafico”, sembra proprio che la differenza stia nel fatto che entrambe sono forme di design, ma non tutto ciò che è design è arte.

    La distinzione normalmente serve a tutelare l’arte, a preservarne lo “status”, l’aura, poiché se è vero che entrambe condividono tecniche e materiali, è pur vero che hanno finalità diverse: la progettazione grafica mira alla messaggistica, ovvero alla qualità del messaggio (che può essere culturale, politico, pubblicitario, umanitario, sociale, e via di seguito), mentre l’arte mira al significato, è essa stessa il messaggio.

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    La linea che separa il design dall’arte è sottile e spesso soggettiva. Un design di qualità dovrebbe puntare all’Arte e, in realtà, molti designer si considerano artisti, anche se pochi artisti si ritengono allo stesso tempo designer.

    La progettazione grafica nasce dalla necessità di comunicare un messaggio (come dice Paul Rand “deve basarsi su di una idea”). Di conseguenza, il designer deve assicurarsi che il messaggio sia efficace e che stimoli delle reazioni. Per il designer l’obiettivo è la qualità, che a sua volta è finalizzata al gusto, alla percezione (del committente o del destinatario). E poiché in una società globalizzata la percezione è in larga parte visiva, l’obiettivo è anche “estetico” (Paul Rand dice: “deve apparire bello”). Per l’artista, al contrario, quello che conta è l’interiorità (es. astrattismo) oppure la realtà (arte figurativa, realismo). Nel primo caso esprimerà l’interiorità raccontando sentimenti, pensieri, paure, emozioni, opinioni, nel secondo caso racconterà il contesto sociale, culturale, religioso o etico in cui vive. E’ necessario che la narrazione avvenga secondo norme estetiche e semantiche comprensibili da tutti. Arte è in pratica comunicare, dare senso alle cose, generare significati in maniera più o meno controllata. Il compito di un artista è quello di ispirare sentimenti ed emozioni, di cui egli ha una diretta responsabilità morale e anche simbolica. L’obiettivo non è soltanto estetico, ma “etico”.

    Se il design diventa arte, etica ed estetica si fondono. E questo avviene nel momento in cui grafica e design riescono a comunicare le stesse sensazioni e le stesse emozioni che, in modi diversi, riescono a comunicare la pittura, la scultura e le arti figurative. I grandi designer sono anche grandi artisti e lo sono proprio nel momento in cui riescono a comunicare questa loro “vocazione artistica”, che è come un dono, una qualità congenita.

    Ma dove inizia l'arte e dove finisce il design? In realtà, le due figure sono intercambiabili. Durante tutto il corso del ‘900 il design ha raggiunto livelli di qualità e competenza paragonabili a quelli dell’arte e questo è avvenuto principalmente in due filoni: da un lato il filone legato all’architettura, all’arredo e agli oggetti di design (product design, furniture design, interior design, luxury design), dall’altro il filone dell’editoria, delle pubblicazioni d’arte, dei manifesti, delle brochure, dei poster, delle riviste di pregio, delle copertine di libri o di dischi, e via di seguito, insomma tutto quel design che ruota intorno alla cultura e alle sue svariate manifestazioni: dibattiti, mostre, incontri, libri, discussioni, spettacoli, anteprime e altro.

    Per quanto concerne il primo filone, sicuramente esso gode di buona salute oggi. Nato nell’ambito del furniture design e dell’interior design ed estesosi successivamente all’architettura, agli oggetti di design e alla pubblicità, è caratterizzato da una “produzione di nicchia”, costituita prevalentemente da articoli, arredi ed architetture “firmate”, valutati sul mercato alla stregua di opere d’arte. In questa prospettiva, peraltro, tutto si riduce ad una mera manifestazione estetica, un “design di cosmesi”, come lo definiva Gillo Dorfles, in precario equilibrio fra minimalismo e tendenza al lusso. I mercati sono praticamente invasi da prodotti come profumi, automobili, cellulari, orologi, gioielli, ecc. e l’investimento di capitali è notevole, tanto che le società vengono spesso quotate in borsa.

    Per quanto riguarda invece il secondo filone, esso ha conosciuto il suo massimo sviluppo fra gli anni ‘30 (Bauhaus) e gli anni ’60 (Pop Art). Durante gli anni ’60 alcuni grandi grafici pubblicitari come Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Tom Wesselman, Jim Dine, Milton Glaser e altri, finirono con l’abbandonare completamente la pubblicità per dedicarsi all’arte. Il fenomeno, conosciuto come “Art design”, è in realtà una forma di progettazione molto raffinata, che nasce proprio dall’esigenza di reagire alla massiccia e pervasiva ingerenza del marketing e della pubblicità nel design. Grafici come Stefan Sagmeister, Paul Rand, Saul Bass, Paula Scher, Fortunato Depero e molti altri, sono esposti nelle più importanti gallerie del mondo e le loro opere figurano accanto a quadri, sculture e installazioni dei più grandi maestri contemporanei. Ma come spiegare questa attrazione del design verso l’arte? Semplice: oggi come allora, l'arte conserva nell'immaginario collettivo un valore e una legittimazione che il design, la moda e la pubblicità ancora non possiedono e che può essere surrogata soltanto attraverso operazioni in apparenza simili, come appunto il design di nicchia o l’art design.

    Ma esistono molte altre attività che ruotano intorno alla grafica e al design, pur non essendo assimilabili né all’una né all’altro. Ad esempio il disegno, l’illustrazione, il fumetto.

    Le tecnologie digitali hanno progressivamente spostato il baricentro della produzione grafica verso il desktop publishing, che è una forma di progettazione grafica molto complessa, intorno alla quale si coagulano un’infinità di attività e discipline, linguaggi, teorie, strumenti di comunicazione, ecc., che ne fanno un settore particolarmente strategico.

    Il fumetto è sostanzialmente un linguaggio di narrazione, che nasce dall’illustrazione, mentre l’illustrazione nasce dal disegno ed è strettamente imparentata con la pittura. Quello che differisce, però, non sono le tecniche e i materiali utilizzati (i colori ad olio, ad esempio, sono quasi sconosciuti nell’illustrazione, così come l’inchiostro di china è poco utilizzato in pittura), ma le modalità d’espressione. La pittura approfondisce le motivazioni, ambendo all’universalità, mentre l’illustrazione ha meno pretese, mira alla riproducibilità ed è quindi più accessibile, alla portata di tutti.

    Tuttavia i ruoli possono invertirsi, non esiste un confine preciso. Si considerino ad esempio illustratori come Fabrizio Clerici, inquietante e surreale, o Tullio Pericoli, così svagato, sottile, metafisico, sognante, un letterato oltre che un grafico, un utopista oltre che un visionario. E lo stesso vale per il fumetto, da Milo Manara a Ugo Pratt, da David Hockney a Hayao Miyazaki, artisti che hanno lasciato un segno nella storia del design.

    In conclusione: un design che aspira all’arte è arte e un design che aspira alla progettazione è progettazione. Tuttavia la progettazione ha molte “specializzazioni” e ad ognuna corrisponde una determinata categoria di prodotti, ad un mercato. Un design, tanti design.

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  • Grafica
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  • Nel 1989 alcuni grafici italiani tentarono di definire i principi programmatici ai quali la grafica avrebbe dovuto ispirarsi nel promuovere lo sviluppo della «professione e della cultura del progetto grafico». Si trattava in verità di un documento molto importante, noto come “Carta del progetto grafico”, alla cui firma e stesura parteciparono molti dei nomi più noti e consacrati della grafica italiana e non soltanto italiana (Anceschi, Balan, Baule, Pericoli, Vignelli, Cresci, Huber, Noorda, Waibl, e via di seguito).

    Per la prima volta si tentava di definire, in modo piuttosto organico e dettagliato, cosa fosse la progettazione grafica e quali fossero le sue principali articolazioni, con l’intento di esplicitarne sia il ruolo che gli obiettivi. E lo si faceva in una prospettiva molto ampia, di “centralità del progetto grafico” rispetto al mondo del lavoro e della produzione, rispetto alle sue stesse articolazioni e alla pluralità di istanze culturali e sociali cui, nella pratica quotidiana come nella ricerca, la progettazione grafica era chiamata a rispondere, in modo sempre più capillare e specializzato.

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    Scorrendone i diversi punti programmatici, saltano subito all’occhio alcune importanti intuizioni. In primo luogo, nonostante all’epoca i campi di applicazione del design e, nello specifico, della grafica fossero molto più circoscritti di quelli attuali, gli autori riescono comunque a prevedere, con largo anticipo sui tempi, alcuni degli sviluppi successivi della disciplina, sia rispetto all’evoluzione della società che del mercato. Ed è tanto più sorprendente in quanto all’epoca non esisteva internet e non aveva ancora avuto luogo la rivoluzione digitale, né erano state applicate al design quelle preziose tecnologie digitali che oggi consentono di aumentare la produttività, semplificando il lavoro.

    Menziono alcuni punti. Ad esempio, si prende atto della centralità della comunicazione visiva, ma allo stesso tempo ci si rende conto della necessità di una accurata riflessione sulla progettazione grafica nell’ambito di una più ampia discussione sulla “cultura del progetto” di cui è essa parte. Ci si rende conto, inoltre. della necessità di superare i limiti un’estetica senza qualità appiattita sul mero consumo. Si riconosce, infine, la presenza generalizzata e capillare di un poderoso sistema di comunicazione e informazione, che genera inquietanti fenomeni di “saturazione comunicativa”, sintomo di una frammentazione culturale che necessita di “orientamenti progettati”.

    Se consideriamo che all’epoca Internet non esisteva ancora, le conclusioni ci appaiono ancora più attuali. D’altronde già Ugo Volli, in “Contro la moda” del 1988, aveva parlato di “inquinamento semiotico”, la cui forma è “il rumore, cioè la sovrapposizione di frammenti di significante privi di ogni legame di senso”.

    Ma il testo prosegue e troviamo altre riflessioni degne di nota. Ad esempio, che la grafica è una “presenza trasversale”, che “dove c'è comunicazione c'è grafica” e che “la grafica è là dove la cultura si fa editoria”. Quest’ultimo concetto è particolarmente interessante, poiché evidenzia lo stretto legame fra cultura, intesa come sistema di conoscenze, e la scrittura (editoria), intesa come sistema di segni. La comunicazione delle conoscenze (patrimonio cognitivo) è resa infatti possibile proprio dalla scrittura (strumento semiotico).

    Il testo procede poi con un elenco di ipotesi. Si dice che la grafica interviene nell'assetto multimediale della politica e della grande distribuzione, nell’interazione consumatore - prodotto, nello sport, nella diffusione dei grandi eventi, nella pianificazione del territorio e della segnaletica stradale, e via di seguito. Si dice che la grafica guida l’attenzione, consentendole di operare distinzioni; plasma la comunicazione e conferisce significato alle strutture della società; si colloca all’interno del “sistema della progettualità”, per interagire con altre discipline, come l'urbanistica, l'architettura, il design industriale (cruscotti, interfacce, packaging), il design ambientale (cartellonistica, trasporti), ecc.. Infine la grafica interviene nella comunicazione istituzionale, nella qualificazione del territorio, nella valorizzazione dei beni e dei servizi.

    Insomma, si tratta di un documento anticipatore, per diverse ragioni. Prima fra tutte, viene evidenziato il ruolo strategico della grafica all’interno della “cultura del progetto”. Negli anni ‘30 questo ruolo era stato interpretato dall’architettura e negli anni ’60 dal design industriale. Ma a partire dagli anni ‘90, in un contesto di deregulation economica e consumistica, è la progettazione grafica ad assumere questo ruolo, trasformando il design in una forma di progettazione totale e anticipando di conseguenza l’attuale globalizzazione.

    Ciò nonostante l’analisi, per quanto articolata, pur riconoscendo la transizione della grafica verso una pluralità di nuove specializzazioni e pur ribadendo la necessità che la disciplina e la professione siano considerate in modo unitario e integrato, dimentica di considerare un aspetto, che invece è molto chiaro alle generazioni successive di designer e grafici, e cioè che in un mondo globale non si può più parlare del design come di una professione a parte, esercitata individualmente, ma bisogna invece pensare ad un insieme di attività e competenze specifiche, coordinate attraverso un lavoro di team, nell’ambito di un progetto interdisciplinare e di una pianificazione metodica delle risorse, delle attività, degli obiettivi e dei risultati.

    Un design molti design

    Nella cultura anglosassone, il termine design significa "progetto" e questo sottintende alla natura polifunzionale del design come strumento di trasformazione complessiva della società e di progettazione efficace di beni e servizi. Alla luce di questo, pertanto, ha poco senso parlare di grafica, bensì sarebbe molto più utile e indicativo parlare di design e, nello specifico, di grafic design.

    Ma quali e quante sono, in definitiva, le specializzazioni del design oggigiorno? Ha senso chiamarle specializzazioni o sarebbe più corretto chiamarle tendenze, dal momento che il termine specializzazione indica più propriamente un insieme di conoscenze (know how) in un determinato campo d’azione di una determinata disciplina, mentre tendenza afferisce piuttosto ad una disposizione complessiva, ad un’attitudine?

    Abbiamo già parlato di art design, più precisamente di quella moda o tendenza a considerare gli oggetti di design come fossero opere d’arte, ad esempio, il fatto che siano commissionati da un curatore o da un gallerista oppure il fatto che siano esposti in musei e gallerie d’arte o ancora la somiglianza dei prezzi nelle aste.

    Tutti abbiamo inoltre sentito parlare di industrial design o product design, quasi sinonimi, e di corporate design. Dalla promozione di uno spettacolo, alla commercializzazione di un brand, fino al design strategico, attraverso molteplici declinazioni, i designers progettano automobili, cellulari, televisioni, case, mobili, oggetti d'arte e d'arredo e molto altro ancora. Il design elabora soluzioni e di conseguenza valorizza risorse: economiche, produttive, ambientali, turistiche, culturali, enogastronomiche e via di seguito.

    Ma spesso il corporate design deve occuparsi anche di società e persone. E’ inevitabile allora che si intersechi col social design o con il brand design. In realtà il social design ha finalità più nobili, poiché, con un approccio in parte simile a quello dell’architettura e dell’urbanistica, si propone di ridisegnare la società, i suoi modelli, le sue sovrastrutture. E’ insomma un design consapevole e responsabile.

    Ma più che di social design, sarebbe utile parlare di human-centered design, poiché è più “estensivo”. Implica infatti più concetti di design, più articolazioni, dallo stesso social design al web design, dalla progettazione di corporate identities per gli enti locali e la pubblica amministrazione, alla valorizzazione di risorse ambientali e culturali, dalla progettazione grafica ed editoriale (desktop publishing, digital publishing), all'implementazione di interfacce e percorsi visivi (UI design), fino alla modellazione 3D, al fotoritocco, al digital rendering, e via di seguito.

    Ma il design non è soltanto estetica, è etica. Di conseguenza, human-centerd design non può prescindere da design for sustainability ovvero ecodesign. L’ecodesign reindirizza l'immaginario collettivo, liberandolo dai bisogni del consumismo indotto (o come dice la Carta, dalla “saturazione comunicativa”). Valorizza inoltre la progettazione, assegnandole una responsabilità etica, che non ha nulla a che fare con il mercato o il marketing.

    In quanto poi al graphic design, che è ciò che comunemente intendiamo per “grafica”, l'aspetto "comunicativo" è essenziale. La grafica è una disciplina versatile e poliedrica, che comunica attraverso immagini e concetti e che si distingue per la sua capacità di operare sui segni e i codici visivi. Questo rende la grafica molto simile alla "scrittura". Come aveva già intuito Roman Jakobson, la grafica utilizza sistemi di comunicazione iconografica per produrre significazione e, quindi, relazione. Questo significa che la grafica, attraverso un efficace utilizzo della scrittura, rende immediata la comprensione del messaggio, che sia esso visivo o verbale. Imponendosi tramite la pubblicità, il marketing, il brand, essa evidenzia in sostanza valori culturali, linguaggi e identità comuni. E’ un linguaggio di progettazione universale, che traccia relazioni.

    Insomma, intorno a queste tendenze, per quanto semplificative, si è sviluppato un grande dibattito, non soltanto sui temi e gli orizzonti del design, come pratica di progettazione, ma sulle sue figure professionali, sempre più numerose, dall’art director al copywriter al consultant manager, tutte in perfetta sintonia con un mondo e una società che potremmo definire, alla Bauman, “liquide”.

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  • Pubblicità
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  • La lavorazione, il packaging, il trasporto e la distribuzione, infine il marketing e la pubblicità. Tutto questo ha a che fare con la progettazione di corporate image e, più in generale, col design strategico. Il progettista John Thackara parlava specificatamente di corporate image e advertising come di forme complesse di design strategico che, in un'ottica di consumo e competizione globale, assume via via un ruolo e una collocazione assolutamente centrali per la progettazione.

    Inutile dire che la pubblicità è divenuta parte integrante del nostro vissuto quotidiano, la ritroviamo ovunque, dalla televisione ai giornali, dai manifesti pubblicitari per strada alle locandine promozionali affisse nei negozi e supermercati e, in forme sempre più invasive, anche su Internet, sugli smartophone, sugli abiti firmati, sulle confezioni di prodotti (packaging), e via di seguito.

    Dire che la pubblicità è ovunque, è tutt’altro che una banalità. La pubblicità non si limita a coinvolgere i consumatori, ma ad ingaggiarli. Ne siamo talmente immersi da esserne dipendenti, assuefatti.

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    La maggior parte dei bisogni, come quello di cambiare auto e vestiti, di divertirsi, ecc. non sono autentici, ma indotti, attraverso modalità inconsce, subliminali, cosa che richiede un’attenta analisi di mercato,  conoscenze di marketing, studi di psicologia e comunicazione, competenze cioè sempre più specializzate e settoriali, al fine di manipolare, prevedendoli in anticipo, i gusti dei consumatori. In questo modo si stimolano nuovi trend, si orientano i consumatori attraverso raffinate forme di condizionamento psicologico e controllo sociale. Un vasto sistema di alienazione della libertà personale e di espropriazione dello spazio-tempo individuale o, come diceva Bauman, un dispositivo di “coercizione” e “rieducazione sociale”,  espressione di un “meta-desiderio”. Infatti, la pubblicità non riflette i nostri sogni più intimi, ma li costruisce, secondo ciò che desidera la struttura sociale ed economica in cui viviamo. Perciò, non si consuma sulla base di una necessità, ma di una pulsione a consumare: “consumo, dunque sono” (Bauman).

    Ma la pubblicità non è soltanto pervasiva, è capillare, strutturata, studiata nei minimi particolari. Un insieme di  immagini e slogan che si imprimono nella mente e nella memoria dei consumatori, indirizzandone le scelte. E’ un potente strumento al servizio del potere, del sistema economico e politico. Le istanze della protesta vengono dunque assimilate, digerite e infine restituite sotto forma di surrogati: gli agitatori diventano influencer e gli ascoltatori follower, youtuber e promoter si propongono come nuovi modelli di riferimento culturale.

    A seconda dei casi, avremo una pubblicità di tipo commerciale, indubbiamente la più diffusa, oppure sociale, volta a promuovere consenso su determinate tematiche; una pubblicità di carattere istituzionale, utilizzata generalmente dallo Stato, dalle Pubbliche Amministrazioni e dalle imprese per comunicare informazioni ai cittadini e agli stakeholder, o una pubblicità di tipo politico, detta anche “propaganda”.

    Soprattutto in ambito professionale le classificazioni sono molteplici: corporate advertising, product advertising, advocacy advertising, digital advertising, social media advertising, outdoor advertising, media planning, corporate identity, brand identity, digital marketing, communication marketing, decision making, product placement, public relations, e via di seguito.

    Ma esistono classificazioni anche in relazione ai media (giornali, riviste, libri, televisione, radio, cinema, Internet, ecc.) e finanche al target (consumatori, cittadini, imprese, intermediari, istituzioni, stakeholders, ecc.).

    In fin dei conti, la pubblicità, per coloro che non la subiscono, bensì la “producono”, è un mestiere entusiasmante, pieno di gratificazioni. Basti pensare, senza spingersi troppo lontano, a pubblicitari come Armando Testa, Massimo Vignelli, Antonio Boggeri, Bruno Munari, Giovanni Pintori, Leonardo Sonnoli e altri che, tramite un appassionato lavoro di ricerca e progettazione, hanno contribuito ad esportare il made in Italy e la pubblicità italiana nel mondo.

    Il design è dunque arte, mestiere, passione che nasce da uno slancio creativo; ma è anche e soprattutto progettazione. Realizzare una pubblicità è un compito particolarmente delicato, in quanto è necessario far convergere nel progetto molteplici professionalità e competenze. Bisogna non soltanto comprendere le pratiche e le metodologie che stanno alla base dell'advertising e del suo mondo di relazioni con le imprese e i consumatori, ma i meccanismi di carattere psicologico e culturale che influenzano il consumo di massa, perché il ruolo della pubblicità è pro-attivo rispetto alla creazione di stereotipi e modelli di vita, specie in contesti caratterizzati da un ampio utilizzo di tecnologie digitali, che grazie ad enormi capacità di calcolo e trasmissione dei dati, consentono di diffondere le informazioni in poco tempo, con costi minimi, su canali di distribuzione non più monodirezionali, come la televisione, ma multi-direzionali, interattivi e globali, come Internet.

    La pubblicità è dunque sostanzialmente analisi strategica e come tale va strutturata in tutti i suoi aspetti, dall’idea al progetto alla distribuzione finale, coordinando e coinvolgendo le diverse figure professionali (grafici, artisti, disegnatori, fotografi, copywriter, ecc.).

    Ma ritornando agli aspetti negativi della pubblicità, che la configurerebbero come un vasto e pervasivo sistema di controllo e di alienazione collettiva, al punto che non sarebbe del tutto inopportuno immaginare ed eventualmente praticare forme di sabotaggio collettivo, esistono attualmente i presupposti per un nuovo tipo di pubblicità, più vicino alla gente, più democratico, meno invasivo, meno compulsivo, che educhi i cittadini ad una maggiore consapevolezza e a un consumo informato?

    La pubblicità in verità non è soltanto un sistema di comunicazione efficace, ma è uno strumento divulgativo che, se usato in modo appropriato e consapevole, è d’aiuto alla comunità e può migliorare la qualità della vita. La società è un complesso sistema di relazioni e di scambi fondato sulla comunicazione e in questo contesto la pubblicità deve relazionarsi alle persone in modo assolutamente “etico” ed empatico, creando rapporti utili, positivi e solidali. Dunque il design deve essere human-centered, oltre che progettuale.

    Proporre un’idea alternativa di design è un dovere, oltre che una best-practice. In un'epoca di crisi globale, di conflitti e distruzione, la cultura può ancora svolgere un ruolo di aggregazione e confronto. La cultura è uno strumento di progettazione globale e sistemica. Qualunque sia la natura dei suoi progetti, politica o sociale, tecnologica o educativa, questi devono prima di tutto essere "comunicati". Quindi non esiste progetto che non parta dalla "comunicazione", dalle arti grafiche e figurative, dalla stampa, dalla televisione, da Internet. Allo stesso modo non v'è progetto che possa fare a meno dell'advertising, della pubblicità o dell'indagine mercato/società.

    In questa prospettiva, come grafici indipendenti, già impegnati in ambiti lavorativi e professionali diversi dal design, ma soprattutto come cultori che si dedicano alla grafica per passione e non per professione e che non sono dunque assillati dalla necessità di vendere o fatturare, abbiamo deciso di provare a diffondere un concetto nuovo di design, libero da logiche di marketing, libero dalla necessità di incrementare la propria visibilità capitalizzando consenso, libero dalla necessità di soddisfare ad ogni costo le richieste della clientela, poiché la libertà professionale non è soltanto garanzia di indipendenza e qualità, ma di reciprocità e confronto.

    AGP&S - Studio Grafico nasce pertanto dall’esigenza di un "framework concettuale" dedicato all’analisi e soluzione di problemi ambientali e socio-culturali e si avvale d’una strategia di comunicazione finalizzata al sostegno ed alla promozione dell’ecodesign (“design for sustainability”) come strumento di crescita qualitativa (“qualitative grow”), attraverso progetti e realizzazioni non destinate alla vendita, ma alla generazione di idee e di concetti. In quest’ottica, le realizzazioni diventano concepts anziché works, preferiamo parlare di templates anziché products e preferiamo proporre dibatti, confronti, soluzioni, cultura anziché business.

    Un lavoro di ricerca e sperimentazione disinteressata, allo stesso tempo efficace e professionale, per una concezione pragmatica ed innovativa della grafica e del design.

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  • Software
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  • Nei prossimi anni Information Economy, Internet of Things e Big data invaderanno le nostre vite, design e grafica avranno un legame sempre più stretto con i dati, mentre la "progettazione di interfacce" diventerà un nuovo ambito di specializzazione.

    Si aprono a questo punto numerosi scenari e un ampio terreno di discussione sul ruolo delle nuove tecnologie, la sperimentazione di nuove pratiche progettuali e conseguentemente l’impatto che tutto questo potrà avere a livello sociale, politico e culturale.

    Per quanto concerne il rapporto tra design e tecnologie, si sta sempre più diffondendo presso aziende e laboratori di ricerca l’utilizzo di materiali intelligenti, innovativi, capaci di interagire con l’ambiente, ad es. materiali smart, nano-tecnologie sensibili, vernici che cambiano colore, liquidi che diventano solidi con la temperatura, vestiti che trasformano la luce in energia, sensori organici, e via di seguito.

    I materiali intelligenti costituiscono indubbiamente una sfida per la progettazione, dalla moda al design, dalla bio-architettura all’urbanistica.

     

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    L'accelerazione del progresso tecnologico sta trasformando così ogni aspetto della vita e dell’ambiente in cui viviamo. L’informatica, la robotica, le nanotecnologie, la genetica, tutto si trasforma a ritmi vertiginosi. In questo contesto anche la comunicazione cambia, divenendo digitale, integrata.

    Ma un mondo sempre più tecnologizzato e digitalizzato ha bisogno di ristrutturare innanzitutto i propri schemi, i propri paradigmi, gli spazi, gli ambienti, le interfacce, i luoghi di incontro, i percorsi, le interazioni, i processi, l’iconografia delle informazioni, e ancora i messaggi, le categorie, i gruppi, i modelli di riferimento, e via di seguito.  Si tratta di progettare una reciprocità, un’interazione fra mondo e cittadini, fra realtà e coloro che la esperiscono.

    Progettare l'interazione è dunque centrale nella comunicazione digitale, trattandosi di una comunicazione appunto integrata, pluridirezionale, ma è altrettanto centrale nella progettazione di software. In internet l’implementazione dell’interfaccia non vuol dire soltanto organizzare il contenuto, ma evidenziarne la “struttura ipertestuale”.

    Le funzionalità di un software sono numerose e specializzate e, paradossalmente, metterle in relazione con l'utente è spesso più difficile e senz’altro più problematico di quanto non lo sia l’implementazione del software stesso. Ogni implementazione richiede una specifica riprogettazione dell’interfaccia. L’utente percepisce l’interfaccia come un insieme ordinato di possibilità, secondo una disposizione coerente e collaudata. Ogni cambiamento o imprevisto rispetto all’ordine concordato determina una riformulazione delle regole e quindi la necessità di riscrivere l’intero processo e rimodellarne l’interfaccia. L’acquisizione di nuove conoscenze e competenze (e questo vale sia per la realtà in cui viviamo che per il software) richiede una riprogettazione integrale del nostro modo di pensare, ovvero delle categorie cognitive e di pensiero che utilizziamo per apprendere.

    Di conseguenza, la progettazione dell'interfaccia diventa persino più importante della progettazione del software in sé, poiché richiede l’utilizzazione di un linguaggio, cioè di un sistema di categorizzazioni. Il progettista della comunicazione sembra dunque prevalere sul progettista della funzione.

    In verità, l'interfaccia è come un medium, un medium virtuale piuttosto che fisico. E’ uno strumento atto a gestire l’interazione e pertanto estende le funzionalità del corpo umano e della mente e allo stesso tempo contribuisce ad implementare il software.

    L'interfaccia somiglia a un dialogo, una conversazione tra utenti e tecnologia. Un interfaccia ben progettata utilizzerà pertanto un linguaggio chiaro e trasparente, vicino agli utenti, anche quando i concetti da comunicare sono sostanzialmente complessi. Il linguaggio dell’interfaccia deve infatti adattarsi al software e alle capacità di comprensione degli utenti, deve essere efficace e al tempo stesso naturale, razionale, empatico, intuitivo. E’ necessario che l’interfaccia instauri un rapporto di fiducia con l’utente, privilegiando l’aspetto iconico, visivo, grafico della comunicazione, rimuovendo invece la comunicazione legata alla complessità della progettazione, al software. Una nuova forma di design, per un mondo e una società in continua evoluzione.

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